domenica 13 aprile 2008

Ruote e prigioni

Senza pelle e senza nome.

Siamo davvero così poveri nell'animo da non sapere difendere chi è più debole d noi?

E, soprattutto, da giustificare il più forte?


Nulla mi ricorda di più la primavera, se non il rumore delle ruote che passano sull'asfalto bagnato, dopo un temporale, mentre strascicano l'acqua e fanno quel rumore che sembra interminabile, in un sali e scendi che ti fa chiedere se in realtà, non stia ancora piovendo.

È quello che succede quando sento parlare di criminalità.

Nulla mi ricorda di più il fascismo, dello strascico delle voci sui CPT, sull'inasprimento delle pene.

La chiamano libertà, questa?

Il carcere non è un centro temporaneo di accoglienza dove mettere quello che ti da fastidio, perché intacca il tuo ideale di vita perfetta, o perché ti ricorda che la tua vita, in fondo, tanto perfetta non è.

Non è nemmeno il luogo dove perpetuare la secolarizzazione del pensiero eterodosso, del dovere sociale e giuridico di stampo, non per ripetermi, fascista.

Il carcere dovrebbe essere il luogo di redenzione.

La parete su cui mi possa appoggiare, dopo aver capito e superato tutto ciò che mi ha portato a compiere un reato socialmente criticabile.

Il carcere dovrebbe essere l'asilo per eccellenza, l'abbraccio materno che permette al disgraziato di comprendere, e non ricommettere, il suo errore.

Dietro ogni colpevole, c'è una vittima.

Dietro ogni vittima, la mano è anche la nostra.

Lo strascico di questi discorsi, è la macchia su chi sta cercando di liberare se stesso dal passato, portandosi dietro un temporale di cui spesso siamo responsabili.

Se siamo tanto indulgenti per i nostri errori, perché dobbiamo essere tanto giustizialisti verso quelli degli altri?


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